Meglio una brutta verità che una bella bugia.
Alle otto, come di consueto, apro gli occhi. Non ho bisogno della sveglia, è una questione di organizzazione metabolica. È il mio orario, sempre che non abbia deciso di fare le ore piccole la sera prima, il che è molto raro. Fuori il sole è già alto e il clima sgradevolmente afoso. Anche su questo, nessuna novità: cosa ci si può aspettare da un dicembre estivo ai tropici? Specialmente in una città lontana dalla costa? Neanche la speranza di una brezza oceanica. Sospiro, rassegnata ad alzarmi e ad affrontare un’altra giornata, in cui mi dedicherò, per un certo numero di ore, a meritarmi il pane quotidiano, dedicandomi ad attività ufficialmente remunerate. Ossia: ora di lavorare. Non che la cosa mi pesi. Anzi, trovo molto pratico il fatto di vivere ai margini della civiltà, in questo posto sperduto all’interno di un grande paese latinoamericano. Con poco sforzo garantisco le necessità basiche: mangiare, bere, dormire, cagare, fare sesso. Soddisfatte queste necessità, l’essere umano è a posto, non ha di che lamentarsi. Mangio tutti i giorni. Anche se da schifo, visto che non so cucinare. Bevo acqua a volontà. A volte anche birra e vino Quanto al sesso, finché le mani funzionano, risolvo in modo rapido e efficiente, sempre. Sono più di quarant’anni che convivo con me stessa, in pochi minuti, una o due volte al mese, la soddisfazione è garantita e senza stress, poi mi giro dall’altra parte e mi addormento tranquilla.
Il lavoro, che mi permette di sopravvivere senza grandi soprassalti, è quello di scrivere e diffondere un qualche tipo di conoscenza a degli studenti. Insegnare è una parola grossa. Diciamo che due volte la settimana racconto alcune banalità semplificate di cose lette e rimasticate migliaia di volte a delle giovani menti poco o niente interessati. Sono vent’anni che ripeto le stesse cose, quando apro la bocca spengo il cervello e entro in automatico. Dopo tutto questo tempo, ho eliminato questioni e affermazioni che possano suscitare dubbi o domande nel mio pubblico. Quello che spiego è diventato, nel corso degli anni, semplice e diretto. Il problema è un altro: tutto quello che spiego in modo verosimile, efficace ed efficiente non ha una qualsiasi validità o legittimità con il mondo reale o con l’esistente. Tutto quello che racconto è il frutto della mia immaginazione, della mia mente, e non di ricerche bibliografiche o di altra natura.
Certo, devo dimostrare di essere una studiosa interessata nella vita culturale e nella ricerca scientifica e sfoggiare in versione scritta questi miei interessi. Succede, però, che ho scoperto molto presto che a nessuno interessa quello che può scrivere una donna di mezz’età che risiede in una noiosa cittadina di provincia ai tropici. E neppure se ciò che dice è vero o falso. Tanto, esattamente per essere una donna di mezz’età in questa noiosa cittadina di provincia che continua ad essere ai tropici e lontanissima dalla costa, il presupposto è che quello che dico non serve a niente e a nessuno. È solo un dovere mio raccontare qualcosa e un dovere del mio pubblico essere presente fisicamente nel luogo dove racconto questo qualcosa. E allora, perché andare tanto per il sottile? La mia passione segreta è quella di raccontare storie. Se poi la gente decide di crederci, beh, questo non è un mio problema. Ci crede perché vuole, perché è più facile che non crederci, magari ci crede anche perché gli piace come racconto. In ogni caso, visto che nessuno dice niente, io continuo e racconto quello che mi piace.
Non è sempre stato così: nei primi tempi della mia attività universitaria ero convinta che il fatto di essere finita ai margini del mondo fosse una situazione avversa e provvisoria. Mi preoccupavo parecchio con quello che raccontavo. Leggevo e scrivevo cose nella cui verità credevo, pensando di avere chissà quale ambizione di carriera, amore e tutte le altre puttanate che pensavo fossero importanti. Mi stancavo come una bestia da soma. Poi mi sono resa conte della frontiera incredibilmente sottile che esiste tra la verità delle cose e la loro apparenza veridica, ma assolutamente non veritiera. Insomma, la mia passione è forgiare con le parole una realtà così verosimile che la gente poi ci crede, che la roba che faccio ha a che fare con la realtà del mondo. Beh, dopo cinque o sei anni, finalmente mi sono svegliata e visto e considerato che a nessuno interessava più di tanto approfondire quello che scrivevo o quello che dicevo e che era tutta un’energia sprecata cercare un senso nelle cose, e che, alla fine dei conti, generare cose con un senso dalla mia fertile immaginazione dava lo stesso identico risultato, ossia, mangiare, bere acqua, dormire, cagare e fare sesso, mi sono messa tranquilla a vedere il tempo passare sotto il sole caldo, lontana dal mare, lontana dal mondo, raccontando la fola della rava e della fava con buonapace mia e di quelli a cui tocca starmi ad ascoltare. Ogni sei mesi invento un articolo su un argomento assolutamente secondario e di nessuna utilità pratica al mondo e lo invio a una qualche rivista sconosciuta di università sconosciute in luoghi ancora più lontani dalla costa di questo in cui sto.
Oltre a questo, scrivo rassegne pseudo letterarie per il giornale locale. Niente di speciale. Romanzi, racconti e saggi improbabili ed impossibili, che nessuno ha mai letto ne’ leggerà mai. Ma che ogni tanto si citano se viene in mente in una qualche occasione, come se si fossero letti per davvero. E le mie storie, i miei romanzi ideali che giammai furono scritti e giammai lo saranno, cominciano a circolare. Non troppo, però, vai che qualcuno poi decide di trovare il tale libro. Mi limito ad inventare una pubblicazione plausibile, di una qualche casa editrice inesistente, che nessun google potrà mai scovare e ad usare un vocabolario un po’ ampolloso e il gioco è fatto, curriculum e sopravvivenza garantiti.
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Mi alzo e, come sempre, la mia prima attività è la pulizia della cacca del cane. Leone è un compagno fedele: grande, grosso e nero, se ne sta a vigilare la casa giorno e notte. La stazza, sui quaranta chili, fa sì che la sua produzione diaria di scorie mi faccia sempre pensare al duro lavoro degli inservienti di un circo di elefanti. D’altra parte, un’attività particolarmente sgradevole come questa è la maniera migliore di cominciare un altro giorno caldo. Insomma, se come prima cosa alla mattina una affronta una montagna vera e propria, non metaforica, di merda, il resto della giornata non può peggiorare
Dopo la raccolta delle cacche, il caffé. Si tratta di acqua sporcata e addensata da una polvere che si trasforma in fanghiglia, sempre, inevitabilmente, non importa la marca che scelgo. Una delle innumerevoli tradizioni locali: questa città, nel passato, ha vissuto gli splendori di capitale della plutocrazia produttrice di caffé. Esportava caffé in tutto il mondo.
Appunto: esportava.
Il caffé dava lucri altissimi, cosicché non ne rimaneva un chicco decente per il consumo locale, ma solo gli scarti degli scarti. Sembra sia questa la ragione per cui l’abitudine a vendere fango con ricordo di caffé è rimasta uguale fino ad oggi.
È l’epoca dell’anno in cui scrivo uno dei due articoli annuali da pubblicare in una qualche rivista “accademica” di una qualche sconosciuta facoltà privata, obbligata ad avere una rivista da una stupida esigenza ministeriale che impone che per mantenere aperta la lucrativa attività della vendita rateale in tre o quattro anni di un diploma di pseudo-laurea è necessario avere un tale di rivista. La cosa non è certo un grande problema, perché più nessuno spende un centesimo per mettere in piedi riviste cartacee. Sono tutte pubblicazioni elettroniche, i cui site si trovano solo cercando intorno alla pagina tremila dei motori di ricerca in Internet.
È il momento di mettere giù alcune paginette in bello stile, basate su una bella bibliografia di assai improbabili e improponibili libri, che nessuno mai farà uno sforzo per trovare, e anche se lo facesse, avrebbe seri problemi anche solo a localizzare su una cartina dettagliata il luogo in cui lo potrebbero aver pubblicato. Il segreto di questo lavoro consiste nello scegliere argomenti e titoli di cui non frega niente a nessuno. In questo modo, le probabilità che qualcuno si pappi l’articolo diminuiscono drasticamente, e così pure la possibilità che qualcuno si chieda cosa sta succedendo, o anche solo se sta succedendo qualcosa.
L’ultima cosa che voglio è che qualcuno si chieda se sta succedendo qualcosa, specialmente quando non sta succedendo niente. Proprio niente. Se ci si può garantire cibo, acqua, dormire, cagare e fare sesso senza che succeda niente, non vedo tre valide ragioni che mi spingano a cambiare la situazione.
Mi siedo, dunque, al computer e decido che oggi mi va di scrivere un bell’articolo innovatore sull’interpretazione delle favole. Un vero e proprio saggio, capace di gettare una nuova luce sulle storie per bambini. Le basi del lavoro si appoggeranno nella teoria post-femminista, post-strutturalista, post-colonialista e tutti i postumi introvabili del mio repertorio.
Una roba illeggibile, insomma. Fondamentalmente inutile. Un articolo ideale e irripetibile.
Giusto per scrupolo di coscienza mi rileggo Biancaneve e Hansel e Gretel, i due testi centrali che analizzo nell’articolo. Mi premuro di spiegare che uso “testo” perché ho intenzione di discutere non solo la versione scritta, ma anche, nel caso di Biancaneve, il testo cinematografico di Walt Disney, soprascritto per sempre a qualsiasi versione stampata. Nei riferimenti bibliografici mi sbizzarrisco con la moltiplicazione miracolosa di teorici e analisti della letteratura. Morale della storia, in questi tempi di capitalismo avanzato, io mi dedico alla gestione di un’economia essenzialmente “domestica”, i cui prodotti non hanno la benché minima circolazione al di fuori di me stessa.
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La prima cosa da fare è inventare un buon titolo. Deve essere solidamente accademico, ossia, deve avere i due punti che dividono il titolo vero e proprio e il sottotitolo esplicativo. Poi ci vuole il riassunto e, finalmente, il testo e i riferimenti bibliografici.
STREGHE BUONE E BAMBINI CATTIVI: UNA CARTOGRAFIA ANTROPOLOGICA DELLE FIABE CLASSICHE NEL XXI SECOLO.
Riassunto: Proposta di una mappa possibile della ricezione contemporanea, alla luce delle teorie della Scuola di Costanza e della proposta Gadameriana di un orizzonte delle aspettative di alcuni testi fiabeschi della tradizione occidentale. La teoria di un’estetica della ricezione porta a riconsiderare i ruoli attribuiti ai personaggi di fiabe come Biancaneve, Hansel e Gretel e altre dai lettori di oggi. I multipli lettori del testo fiabesco, infatti, leggono attraverso i lettori anteriori e si appropriano dei depositi sedimentati di significati e interpretazioni accumulate lungo il tempo, che possono essere, a loro volta, analizzati archeologicamente.
Come inizio non c’è male. Direi che ci siamo. In un colpo solo mi sono riferita ad alcuni nomi conosciuti, referenze accessibili chiunque, sicure, la mia garanzia accademica. Siccome le statistiche di produzione e di citazioni sono solo quantitative, mi metto così al riparo. Citami la persona giusta e ti dirò chi sei e di cosa ti occupi.
Mi metto al lavoro, e poche ore dopo questa mia full immersion nella cultura fiabesca traccio le ipotesi fondamentali, la sostanza del testo.
L’idea, grosso modo, si sviluppa in una prospettiva di parodia pseudo marxista della storia di Biancaneve e i sette nani. Le mie affermazioni sono tutte giustificate nelle metodologie delle Scienze Umane, quando affermo che la lettura tradizionale della fiaba è reazionaria poiché gli sviluppi del modello storico nella direzione proposta principalmente dalla scuola francese della Nouvelle Histoire richiedono la ricerca di una ricostruzione del quotidiano e dell’immaginario popolare, trasposto, ad un certo punto della storia, nel registro privilegiato dalle forza conservatrici, la scrittura. Da qui, la trasformazione di “aree mitologicamente costruite” della trasfigurazione del lavoro e dei rapporti sociali fortemente rivoluzionarie, presenti nella tradizione orale, in archetipi della conservazione delle disuguaglianze.
La fiaba di Biancaneve, nel mio articolo, si trasforma, in sostanza, in fabula reazionaria e moralista. Nella prospettiva di una teoria della storia come qui proposta, il racconto della giovane che fugge nel bosco, incontra rifugio con i sette nani, è avvelenata, si risveglia al bacio del Principe Azzurro, se lo sposa e vivono felici e contenti, può essere interpretata come sequenza positiva di fatti importanti, i cui protagonisti esistono solamente per averli realizzati. Insomma, la narrazione storica di natura evenementielle influenza il passaggio della narrativa di Biancaneve dalla fase orale a quella scritta. La potenzialità di analisi marxista si trova nella contrapposizione tra Biancaneve e i sette lavoratori delle miniere del re.
Non ci sono dubbi sul fatto che la rappresentazione disneyana dei sette nani che si alzano all’alba e fischiettano e cantano felici perché vanno a lavorare nel ventre della terra contiene gli elementi dell’ingiustizia sociale più assoluta, dell’abisso sempre più profondo che separa i ricchi e i poveri. Nani, perché come i bambini possono entrare nei cunicoli più stretti, dove l’aria sicuramente manca e le strutture della miniera sono più precarie, dove il rischio di restare sepolti, intrappolati è concreto.
Bene, i sette nani, quindi, lavorano in una miniera di diamanti e pietre preziose. Ma non sono, evidentemente, i padroni del posto. A meno che non li consideriamo di un’avarizia eccezionale, peccato capitale, come è bene ricordare in quest’articolo, che Dante così ben descrive nel suo Inferno. No, i sette nani sono poveri. Poveri in canna. Poverissimi. Del lucro della miniera evidentemente non vedono un centesimo. Non si spiega altrimenti il fatto che vivano in una miserabile capanna in mezzo al bosco, dove lo spazio ricorda molto quello delle camerate di baracche di campi di lavoro nella tundra siberiana: una sola stanza da letto, un tetto di paglia e molta sporcizia, tant’è che Biancaneve spazza e lava. Condizioni di vita più che proletarie, dunque per i sette nani. Mentre la giovane fanciulla è vittima delle macchinazioni di una donna forte e indipendente, in quanto tale strega e cattiva. Bellissima. Labbra e occhi da vamp. Nerovestita perché si sa, il nero basico è sempre, sempre chic. Femme fatale, triste riferimento ai pericoli rappresentati da donne potenti. La paura della donna si traduce in paura del femminismo. Questo è un tocco in più all’inutilità dell’articolo: un bel riferimento al genere, alla differenza, alla teoria degli women’s studies, usando come fonte il testo cinematografico della fiaba, in modo da mostrare anche una certa capacità nei cosiddetti cultural studies. Garantire il pane quotidiano. Amen.
Insomma, le donne rappresentano un pericolo alla stabilità di una società reazionaria, quando assumono il controllo e, come in questo caso, il potere. Ecco, dunque, che la forza rivoluzionaria di Crimilde obbliga la giovane Biancaneve, incarnazione del modello femminile di ideale cristiano, mussulmano, induista eccetera eccetera, ma comunque docile e buona e dolce e bella e molto giovane e fragile e bisognosa a fuggire, trovando rifugio nella baracca dei sette proletari, in cui apprenderà le arti femminili delle pulizie, del cucito, della danza. Qui, varie questioni sono in gioco:
- La forza reazionaria che perde il suo potere, rappresentata da Biancaneve, che incarna i suoi valori e li metaforizza. Lo perde a causa di un modello femminile inaccettabile, perché non sottomessa, ma potente e autonoma. Crimilde è il cambiamento nei valori e nei costumi, oltre che la forza di un pensiero che si trasforma in rivoluzionario per davvero e “scaccia” il modello Biancaneve. Questo livello della fiaba rimette, da una parte, alla tradizione della storia politica più bieca, perché si riferisce alle dispute e ai fatti “grandi”, rivoluzioni, rovesci, re, regine, grandi nomi e grandi fatti che sono la struttura della storia tradizionale. Dall’altra parte mette in gioco i valori dei ruoli sociali femminili e le loro potenzialità destabilizzanti e sovversive.
- La questione del ruolo immutabile dei sette nani, prima e dopo i grandi e vistosi mutamenti politici che il territorio attraversa quando Crimilde si torna potente e quando, alla fina, salvata dal principe, futuro re, Biancaneve torna “al potere”. Diciamo pure che la miniera dei sette nani apparteneva ai feudi in possesso della famiglia di Biancaneve. Il cambiamento politico rappresentato da Crimilde non incide sul quotidiano miserabile dei minatori ne’ del loro sfruttamento. Oppure, diciamo che la miniera fosse direttamente controllate gestita dai funzionari reali: non si può certo dire che la nobiltà fosse magnanima con chi gli forniva le straordinarie ricchezze minerarie!
Si può, quindi, affermare che i sedimenti rappresentati dalle teorie sociali, storiche, di genere e quant’altro incidono profondamente nella lettura e interpretazione che esiste oggi del testo della fiaba.
Questa fiaba non è più quella, grazie a questo mio articolo.