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COSE MAGICHE CHE POCHI CONOSCONO.

Vanno molto di moda film e libri che trattano di “cose magiche”. Oltre ad alcuni che contengono cose vere, altri proprio non c’azzeccano niente. Siccome io sono una Fata che ha studiato e più che abituata a transitare tra i due mondi, ecco qui tre animali magici che nessuno conosce per davvero:

  1. Friccotteri = coleotteri che si nutrono del polline di fiori di canapa Indiana. Producono una specie di melassa che stimola l’immaginazione, è rilassante e a volte danno la ridarella.
  2. Aedis Aegypti = zanzare che volano in formazione geroglifica.
  3. Zanzare tigre = ci sono quelle estinte, con le zanne. Vengono dal Bengala e più raramente, le zanzare tigre dal pelo bianco vengono dalla Siberia.

Vorrei anche segnalare una macchina che, specialmente in periodi di crisi di identità nazionale, religiosa e quant’altro è molto usato: il DOGMOGRAFO, una macchina per scrivere cose a cui credere senza spiegazioni.

Poi, vorrei qui dare una spiegazione rapida su come fanno le creature magiche ad avere sempre qualche spicciolo in tasca: si trovano, di solito nei mercati sotterranei, in quelli paralleli e nelle terre di confine, le polveri d’arcobaleno. Sono arcobaleni liofilizzati, a cui basta aggiungere un po’ d’acqua perché si “gonfino”. Sono messi sotto vetro e, quando vengono idratati, hanno dimensioni variabili tra i 50 cm e i 5 metri. Dipende dalla loro grandezza la quantità di monete d’oro che si trovano alla loro base. Quelli più piccoli  hanno un pentolino con quattro o cinque monete, quelli più grandi arrivano ad avere pentole che ne contengono fino a 50.

Vabbè, dai, per oggi ho rivelato anche troppo…

 

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Le fiabe, il lavoro intellettuale e una fata di mezz’età (1)

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Meglio una brutta verità che una bella bugia.

Alle otto, come di consueto, apro gli occhi. Non ho bisogno della sveglia, è una questione di organizzazione metabolica. È il mio orario, sempre che non abbia deciso di fare le ore piccole la sera prima, il che è molto raro. Fuori il sole è già alto e il clima sgradevolmente afoso. Anche su questo, nessuna novità: cosa ci si può aspettare da un dicembre estivo ai tropici? Specialmente in una città lontana dalla costa? Neanche la speranza di una brezza oceanica. Sospiro, rassegnata ad alzarmi e ad affrontare un’altra giornata, in cui mi dedicherò, per un certo numero di ore, a meritarmi il pane quotidiano, dedicandomi ad attività ufficialmente remunerate. Ossia: ora di lavorare. Non che la cosa mi pesi. Anzi, trovo molto pratico il fatto di vivere ai margini della civiltà, in questo posto sperduto all’interno di un grande paese latinoamericano. Con poco sforzo garantisco le necessità basiche: mangiare, bere, dormire, cagare, fare sesso. Soddisfatte queste necessità, l’essere umano è a posto, non ha di che lamentarsi. Mangio tutti i giorni. Anche se da schifo, visto che non so cucinare. Bevo acqua a volontà. A volte anche birra e vino Quanto al sesso, finché le mani funzionano, risolvo in modo rapido e efficiente, sempre. Sono più di quarant’anni che convivo con me stessa, in pochi minuti, una o due volte al mese, la soddisfazione è garantita e senza stress, poi mi giro dall’altra parte e mi addormento tranquilla.

Il lavoro, che mi permette di sopravvivere senza grandi soprassalti, è quello di scrivere e diffondere un qualche tipo di conoscenza a degli studenti. Insegnare è una parola grossa. Diciamo che due volte la settimana racconto alcune banalità semplificate di cose lette e rimasticate migliaia di volte a delle giovani menti poco o niente interessati. Sono vent’anni che ripeto le stesse cose, quando apro la bocca spengo il cervello e entro in automatico. Dopo tutto questo tempo, ho eliminato questioni e affermazioni che possano suscitare dubbi o domande nel mio pubblico. Quello che spiego è diventato, nel corso degli anni, semplice e diretto. Il problema è un altro: tutto quello che spiego in modo verosimile, efficace ed efficiente non ha una qualsiasi validità o legittimità con il mondo reale o con l’esistente. Tutto quello che racconto è il frutto della mia immaginazione, della mia mente, e non di ricerche bibliografiche o di altra natura.

Certo, devo dimostrare di essere una studiosa interessata nella vita culturale e nella ricerca scientifica e sfoggiare in versione scritta questi miei interessi. Succede, però, che ho scoperto molto presto che a nessuno interessa quello che può scrivere una donna di mezz’età che risiede in una noiosa cittadina di provincia ai tropici. E neppure se ciò che dice è vero o falso. Tanto, esattamente per essere una donna di mezz’età in questa noiosa cittadina di provincia che continua ad essere ai tropici e lontanissima dalla costa, il presupposto è che quello che dico non serve a niente e a nessuno. È solo un dovere mio raccontare qualcosa e un dovere del mio pubblico essere presente fisicamente nel luogo dove racconto questo qualcosa. E allora, perché andare tanto per il sottile? La mia passione segreta è quella di raccontare storie. Se poi la gente decide di crederci, beh, questo non è un mio problema. Ci crede perché vuole, perché è più facile che non crederci, magari ci crede anche perché gli piace come racconto. In ogni caso, visto che nessuno dice niente, io continuo e racconto quello che mi piace.

Non è sempre stato così: nei primi tempi della mia attività universitaria ero convinta che il fatto di essere finita ai margini del mondo fosse una situazione avversa e provvisoria. Mi preoccupavo parecchio con quello che raccontavo. Leggevo e scrivevo cose nella cui verità credevo, pensando di avere chissà quale ambizione di carriera, amore e tutte le altre puttanate che pensavo fossero importanti. Mi stancavo come una bestia da soma. Poi mi sono resa conte della frontiera incredibilmente sottile che esiste tra la verità delle cose e la loro apparenza veridica, ma assolutamente non veritiera. Insomma, la mia passione è forgiare con le parole una realtà così verosimile che la gente poi ci crede, che la roba che faccio ha a che fare con la realtà del mondo. Beh, dopo cinque o sei anni, finalmente mi sono svegliata e visto e considerato che a nessuno interessava più di tanto approfondire quello che scrivevo o quello che dicevo e che era tutta un’energia sprecata cercare un senso nelle cose, e che, alla fine dei conti, generare cose con un senso dalla mia fertile immaginazione dava lo stesso identico risultato, ossia, mangiare, bere acqua, dormire, cagare e fare sesso, mi sono messa tranquilla a vedere il tempo passare sotto il sole caldo, lontana dal mare, lontana dal mondo, raccontando la fola della rava e della fava con buonapace mia e di quelli a cui tocca starmi ad ascoltare. Ogni sei mesi invento un articolo su un argomento assolutamente secondario e di nessuna utilità pratica al mondo e lo invio a una qualche rivista sconosciuta di università sconosciute in luoghi ancora più lontani dalla costa di questo in cui sto.

Oltre a questo, scrivo rassegne pseudo letterarie per il giornale locale. Niente di speciale. Romanzi, racconti e saggi improbabili ed impossibili, che nessuno ha mai letto ne’ leggerà mai. Ma che ogni tanto si citano se viene in mente in una qualche occasione, come se si fossero letti per davvero. E le mie storie, i miei romanzi ideali che giammai furono scritti e giammai lo saranno, cominciano a circolare. Non troppo, però, vai che qualcuno poi decide di trovare il tale libro. Mi limito ad inventare una pubblicazione plausibile, di una qualche casa editrice inesistente, che nessun google potrà mai scovare e ad usare un vocabolario un po’ ampolloso e il gioco è fatto, curriculum e sopravvivenza garantiti.

 

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Mi alzo e, come sempre, la mia prima attività è la pulizia della cacca del cane. Leone è un compagno fedele: grande, grosso e nero, se ne sta a vigilare la casa giorno e notte. La stazza, sui quaranta chili, fa sì che la sua produzione diaria di scorie mi faccia sempre pensare al duro lavoro degli inservienti di un circo di elefanti. D’altra parte, un’attività particolarmente sgradevole come questa è la maniera migliore di cominciare un altro giorno caldo. Insomma, se come prima cosa alla mattina una affronta una montagna vera e propria, non metaforica, di merda, il resto della giornata non può peggiorare

Dopo la raccolta delle cacche, il caffé. Si tratta di acqua sporcata e addensata da una polvere che si trasforma in fanghiglia, sempre, inevitabilmente, non importa la marca che scelgo. Una delle innumerevoli tradizioni locali: questa città, nel passato, ha vissuto gli splendori di capitale della plutocrazia produttrice di caffé. Esportava caffé in tutto il mondo.

Appunto: esportava.

Il caffé dava lucri altissimi, cosicché non ne rimaneva un chicco decente per il consumo locale, ma solo gli scarti degli scarti. Sembra sia questa la ragione per cui l’abitudine a vendere fango con ricordo di caffé è rimasta uguale fino ad oggi.

È l’epoca dell’anno in cui scrivo uno dei due articoli annuali da pubblicare in una qualche rivista “accademica” di una qualche sconosciuta facoltà privata, obbligata ad avere una rivista da una stupida esigenza ministeriale che impone che per mantenere aperta la lucrativa attività della vendita rateale in tre o quattro anni di un diploma di pseudo-laurea è necessario avere un tale di rivista. La cosa non è certo un grande problema, perché più nessuno spende un centesimo per mettere in piedi riviste cartacee. Sono tutte pubblicazioni elettroniche, i cui site si trovano solo cercando intorno alla pagina tremila dei motori di ricerca in Internet.

È il momento di mettere giù alcune paginette in bello stile, basate su una bella bibliografia di assai improbabili e improponibili libri, che nessuno mai farà uno sforzo per trovare, e anche se lo facesse, avrebbe seri problemi anche solo a localizzare su una cartina dettagliata il luogo in cui lo potrebbero aver pubblicato. Il segreto di questo lavoro consiste nello scegliere argomenti e titoli di cui non frega niente a nessuno. In questo modo, le probabilità che qualcuno si pappi l’articolo diminuiscono drasticamente, e così pure la possibilità che qualcuno si chieda cosa sta succedendo, o anche solo se sta succedendo qualcosa.

L’ultima cosa che voglio è che qualcuno si chieda se sta succedendo qualcosa, specialmente quando non sta succedendo niente. Proprio niente. Se ci si può garantire cibo, acqua, dormire, cagare e fare sesso senza che succeda niente, non vedo tre valide ragioni che mi spingano a cambiare la situazione.

Mi siedo, dunque, al computer e decido che oggi mi va di scrivere un bell’articolo innovatore sull’interpretazione delle favole. Un vero e proprio saggio, capace di gettare una nuova luce sulle storie per bambini. Le basi del lavoro si appoggeranno nella teoria post-femminista, post-strutturalista, post-colonialista e tutti i postumi introvabili del mio repertorio.

Una roba illeggibile, insomma. Fondamentalmente inutile. Un articolo ideale e irripetibile.

Giusto per scrupolo di coscienza mi rileggo Biancaneve e Hansel e Gretel, i due testi centrali che analizzo nell’articolo. Mi premuro di spiegare che uso “testo” perché ho intenzione di discutere non solo la versione scritta, ma anche, nel caso di Biancaneve, il testo cinematografico di Walt Disney, soprascritto per sempre a qualsiasi versione stampata. Nei riferimenti bibliografici mi sbizzarrisco con la moltiplicazione miracolosa di teorici e analisti della letteratura. Morale della storia, in questi tempi di capitalismo avanzato, io mi dedico alla gestione di un’economia essenzialmente “domestica”, i cui prodotti non hanno la benché minima circolazione al di fuori di me stessa.

 

3

La prima cosa da fare è inventare un buon titolo. Deve essere solidamente accademico, ossia, deve avere i due punti che dividono il titolo vero e proprio e il sottotitolo esplicativo. Poi ci vuole il riassunto e, finalmente, il testo e i riferimenti bibliografici.

 

STREGHE BUONE E BAMBINI CATTIVI: UNA CARTOGRAFIA ANTROPOLOGICA DELLE FIABE CLASSICHE NEL XXI SECOLO.

 

Riassunto: Proposta di una mappa possibile della ricezione contemporanea, alla luce delle teorie della Scuola di Costanza e della proposta Gadameriana di un orizzonte delle aspettative di alcuni testi fiabeschi della tradizione occidentale. La teoria di un’estetica della ricezione porta a riconsiderare i ruoli attribuiti ai personaggi di fiabe come Biancaneve, Hansel e Gretel e altre dai lettori di oggi. I multipli lettori del testo fiabesco, infatti, leggono attraverso i lettori anteriori e si appropriano dei depositi sedimentati di significati e interpretazioni accumulate lungo il tempo, che possono essere, a loro volta, analizzati archeologicamente.

 

Come inizio non c’è male. Direi che ci siamo. In un colpo solo mi sono riferita ad alcuni nomi conosciuti, referenze accessibili chiunque, sicure, la mia garanzia accademica. Siccome le statistiche di produzione e di citazioni sono solo quantitative, mi metto così al riparo. Citami la persona giusta e ti dirò chi sei e di cosa ti occupi.

Mi metto al lavoro, e poche ore dopo questa mia full immersion nella cultura fiabesca traccio le ipotesi fondamentali, la sostanza del testo.

L’idea, grosso modo, si sviluppa in una prospettiva di parodia pseudo marxista della storia di Biancaneve e i sette nani. Le mie affermazioni sono tutte giustificate nelle metodologie delle Scienze Umane, quando affermo che la lettura tradizionale della fiaba è reazionaria poiché gli sviluppi del modello storico nella direzione proposta principalmente dalla scuola francese della Nouvelle Histoire richiedono la ricerca di una ricostruzione del quotidiano e dell’immaginario popolare, trasposto, ad un certo punto della storia, nel registro privilegiato dalle forza conservatrici, la scrittura. Da qui, la trasformazione di “aree mitologicamente costruite” della trasfigurazione del lavoro e dei rapporti sociali fortemente rivoluzionarie, presenti nella tradizione orale, in archetipi della conservazione delle disuguaglianze.

La fiaba di Biancaneve, nel mio articolo, si trasforma, in sostanza, in fabula reazionaria e moralista. Nella prospettiva di una teoria della storia come qui proposta, il racconto della giovane che fugge nel bosco, incontra rifugio con i sette nani, è avvelenata, si risveglia al bacio del Principe Azzurro, se lo sposa e vivono felici e contenti, può essere interpretata come sequenza positiva di fatti importanti, i cui protagonisti esistono solamente per averli realizzati. Insomma, la narrazione storica di natura evenementielle influenza il passaggio della narrativa di Biancaneve dalla fase orale a quella scritta. La potenzialità di analisi marxista si trova nella contrapposizione tra Biancaneve e i sette lavoratori delle miniere del re.

Non ci sono dubbi sul fatto che la rappresentazione disneyana dei sette nani che si alzano all’alba e fischiettano e cantano felici perché vanno a lavorare nel ventre della terra contiene gli elementi dell’ingiustizia sociale più assoluta, dell’abisso sempre più profondo che separa i ricchi e i poveri. Nani, perché come i bambini possono entrare nei cunicoli più stretti, dove l’aria sicuramente manca e le strutture della miniera sono più precarie, dove il rischio di restare sepolti, intrappolati è concreto.

Bene, i sette nani, quindi, lavorano in una miniera di diamanti e pietre preziose. Ma non sono, evidentemente, i padroni del posto. A meno che non li consideriamo di un’avarizia eccezionale, peccato capitale, come è bene ricordare in quest’articolo, che Dante così ben descrive nel suo Inferno. No, i sette nani sono poveri. Poveri in canna. Poverissimi. Del lucro della miniera evidentemente non vedono un centesimo. Non si spiega altrimenti il fatto che vivano in una miserabile capanna in mezzo al bosco, dove lo spazio ricorda molto quello delle camerate di baracche di campi di lavoro nella tundra siberiana: una sola stanza da letto, un tetto di paglia e molta sporcizia, tant’è che Biancaneve spazza e lava. Condizioni di vita più che proletarie, dunque per i sette nani. Mentre la giovane fanciulla è vittima delle macchinazioni di una donna forte e indipendente, in quanto tale strega e cattiva. Bellissima. Labbra e occhi da vamp. Nerovestita perché si sa, il nero basico è sempre, sempre chic. Femme fatale, triste riferimento ai pericoli rappresentati da donne potenti. La paura della donna si traduce in paura del femminismo. Questo è un tocco in più all’inutilità dell’articolo: un bel riferimento al genere, alla differenza, alla teoria degli women’s studies, usando come fonte il testo cinematografico della fiaba, in modo da mostrare anche una certa capacità nei cosiddetti cultural studies. Garantire il pane quotidiano. Amen.

Insomma, le donne rappresentano un pericolo alla stabilità di una società reazionaria, quando assumono il controllo e, come in questo caso, il potere. Ecco, dunque, che la forza rivoluzionaria di Crimilde obbliga la giovane Biancaneve, incarnazione del modello femminile di ideale cristiano, mussulmano, induista eccetera eccetera, ma comunque docile e buona e dolce e bella e molto giovane e fragile e bisognosa a fuggire, trovando rifugio nella baracca dei sette proletari, in cui apprenderà le arti femminili delle pulizie, del cucito, della danza. Qui, varie questioni sono in gioco:

  • La forza reazionaria che perde il suo potere, rappresentata da Biancaneve, che incarna i suoi valori e li metaforizza. Lo perde a causa di un modello femminile inaccettabile, perché non sottomessa, ma potente e autonoma. Crimilde è il cambiamento nei valori e nei costumi, oltre che la forza di un pensiero che si trasforma in rivoluzionario per davvero e “scaccia” il modello Biancaneve. Questo livello della fiaba rimette, da una parte, alla tradizione della storia politica più bieca, perché si riferisce alle dispute e ai fatti “grandi”, rivoluzioni, rovesci, re, regine, grandi nomi e grandi fatti che sono la struttura della storia tradizionale. Dall’altra parte mette in gioco i valori dei ruoli sociali femminili e le loro potenzialità destabilizzanti e sovversive.
  • La questione del ruolo immutabile dei sette nani, prima e dopo i grandi e vistosi mutamenti politici che il territorio attraversa quando Crimilde si torna potente e quando, alla fina, salvata dal principe, futuro re, Biancaneve torna “al potere”. Diciamo pure che la miniera dei sette nani apparteneva ai feudi in possesso della famiglia di Biancaneve. Il cambiamento politico rappresentato da Crimilde non incide sul quotidiano miserabile dei minatori ne’ del loro sfruttamento. Oppure, diciamo che la miniera fosse direttamente controllate gestita dai funzionari reali: non si può certo dire che la nobiltà fosse magnanima con chi gli forniva le straordinarie ricchezze minerarie!

Si può, quindi, affermare che i sedimenti rappresentati dalle teorie sociali, storiche, di genere e quant’altro incidono profondamente nella lettura e interpretazione che esiste oggi del testo della fiaba.

Questa fiaba non è più quella, grazie a questo mio articolo.

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FATALITÀ (3): l’azienda di Natale.

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L’entrata della libreria è una porticciola stretta in una piccola traversa della Rua Simpatia che sbuca nella Harmonia. C’è stata un’epoca in cui ho vissuto nella parallela, la Rua Wizard. Lo faccio notare a Medea che, nel mentre, si dirige a passo spedito verso una tizia che, con un panno infuocato in cima ad un bastone, cerca di far volar via i marimbondos dalla parete. Medea le strappa la torcia di mano e, con molta delicatezza, raccoglie amorevolmente il nido di marimbondos e lo deposita in mezzo alle pile di mattoni di un edificio in costruzione li di fianco, con l’assoluta certezza che i muratori, trovandoli, li adotteranno. Il passo successivo ci distoglie dal cammino verso la libreria della traversa, in direzione della farmacia più vicina, dove compriamo una pomata antistaminica per lenire i dolori della povera Medea, verso la quale i marimbondos non hanno rivelato la minima gratitudine. Finalmente, dopo essersi unta come una frittella appena uscita dalla padella, riprendiamo la strada e arriviamo ai libri. Quello che ci serve è una buona guida ai Bed&Breakfast che possiamo incontrare nel nostro viaggio.

La libreria si estende su vari piani, sopra e sottoterra, e a quest’ora non c’è molta gente. All’entrata, prendiamo due lampade a gas per poter percorrere le file di scaffali. La padrona la individuiamo subito, la conosciamo sin dai tempi delle grandi feste a Shangri-lá, é un’elfa che, tra di noi, abbiamo ribattezzato SN, perché snella, snob e sniffatrice di polvere di papaveri di Cina, il che le conferisce sempre un aspetto un po’ sognante che la rende ancora più snob, e che le toglie l’appetito rendendola snella. Miss SN, a cui manca soltanto un passo alla N per diventare SM, si chiama, in realtà, Rkywtranugdwyn, o qualcosa del genere in lingua elfica, ma visto che vive in Brasile la conoscono tutti con il nomignolo (assai raro da queste parti) di Maria. Maria era stata una quasi collega di facoltà mia, avevamo fatto insieme i corsi di Paleografia Runica, Filologia Orco-Pinnica (lo studio dei cambiamenti linguistici attraverso la poesia in atlantidese antico). Poi lei aveva fatto uno stage all’estero, in Grecia, con la supervisione della sibilla di Delfi. All’epoca aveva previsto la crisi dell’Euro, ma nessuno le aveva dato credito perché c’erano ancora le dracme. Io, invece, avevo preferito una borsa di studio che mi aveva portato in Brasile, a studiare con Babbo (di cognome) Natale (di nome). Non c’è niente da ridere, sul fatto che il signor Babbo, che poi ha insistito che chiamassi più familiarmente Nat, si sia trasferito da queste parti. Come lui stesso mi ha spiegato, al Polo Nord il clima non è proprio adatto a certi acciacchi dell’età. Poi, dopo l’esplosione di Tchernôbil, le renne sono state decimate e quelle che sono sopravvissute hanno moltissimi problemi a volare. Ma il problema più grave era il salario degli operai, elfi e gnomi finlandesi che, oltre al ricco stipendio, al rifornimento di carbone gratis per l’inverno (Nat non è un verde, non gliene importa ninente di inquinare bruciando carbone), rivendicavano il diritto ad avere sul posto di lavoro una sauna con piscina riscaldata e parco acquatico. Così, per risparmiare sul costo, aveva cercato un posto dove potesse delocalizzare la produzione e dove offrissero sgravi fiscali agli imprenditori. Grazie ad internet e al motore di ricerca sviluppato dalla Fantasy online (trade mark), Smeegle (marchio depositato), aveva scoperto che un sacco di municipi del Midwest brasiliano offrivano incentivi fiscali. Poi, per la mano d’opera, siccome è un vecchietto tanto buono e caro, aveva contrattato le creature magiche locali, ottenendo ancor più benefici perché questo personale é diversamente abile. I Saci-Pererê, per esempio, sono i suoi operai preferiti, perché gli permettono di ottenere benefici in quanto rispetta le quote razziali. Inoltre, siccome i Saci hanno una gamba sola, riceve ancor più incentivi. Le Mule Senza Testa, Mulas Sem Cabeça, d’altra parte, sono il suo gioiello di fronte alle richieste di quote rosa, ne ha messe varie nel consiglio di amministrazione. Belle e prosperose, peccano solo per la mancanza di testa. Così Nat, alla fin fine, fa quel che vuole del suo modello di gestione aziendale. Il vecchietto è un capitalista esperto, altroché, visto che per pagare meno contratta stagisti tra le Curupire, rimunerandoli con i dolcetti e illudendoli che un giorno qualcuno troverà la soluzione ai loro piedi all’indietro.

Morale della favola, poco ci mancava che fosse il Comune, a pagarlo, per dar lavoro a tanta gente che avrebbe potuto aver più difficoltà di altri nel mondo competitivo degli affari in tempi di globalizzazione. Il sindaco della città si sfregava le mani, pensando a quanti soldi risparmiava in strutture di appoggio ai diversamente abili. Se le sfregava ancora di più quando pensava al marketing turistico per la città, che tra i suoi attrattivi vantava il niente più assoluto. In tempi passati c’era stato un momento in cui la città aveva addirittura ricevuto alcune stelle hollywoodiane. In realtà non era proprio la città. Era una Fazenda di una ricchissima Incuba, che aveva fatto la sua fortuna come modella in un quadro di Goya (è la creatura seduta sullo stomaco della giovane dormiente, non la Maya Desnuda), e poi aveva investito in terre ed era diventata una latifondista brasiliana. Insomma, la sua Fazenda si chiamava Eliseum e aveva la sua propria pista di atterraggio. Così, negli anni trenta, dava grandi banchetti a cui partecipavano le stars. Ma poi, quando si era trasferita all’Isola che non c’è, la Fazenda era entrata in rovina e la città era scomparsa dalle mappe. Adesso, Nat era l’asso nella manica alle prossime elezioni

Comunque. Comunque. Allora, io avevo avuto un a borsa di studio in questo posto ai tropici, e studiavo in questo edificio:

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La fabbrica era nel sottosuolo. Poi, dopo la borsa di studio, ero finita a vivere a Black Stream, dove ancor oggi mi trovo. 

Detto questo, mi sa che devo tornare alla nostra libreria, visto che con queste divagazioni interminabili, siamo ancora senza guida di viaggio e dobbiamo cominciare a cercare lo Yeti…

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FATALITÀ (2)

2013-06-18 19.40.33 É una giornata straordinaria, al Prato dei Pioppi, così brillante che decidiamo di farla durare 26 ore invece delle solite 24. Nel laghetto di pietre brillanti, i pesci si ripuliscono, depositando scaglie d’oro sul fondo. È la nostra ricchezza, quella che ci permette di vivere e viaggiare. Usiamo anche i pezzi di corteccia d’argento dei pioppi, che raccogliamo dopo che hanno fatto il bagno di luna piena. Guardo le mie amiche e penso che sia evidente che la Lupa Romana appartenga al popolo dell’Isola che non c’è anche se sulla cartina c’è ed ha un nome e si può visitare, ma quello che si trova è solo un doppione in 3D pieno di gente che si fa la villa, la portaerei e il vulcano privato. Al suo fianco siede Fatavarich, una ninfa di origini siberiane, che crede fermamente che a ciascuno deve essere data una bacchetta magica secondo le sue necessità, e con questa lavorerà secondo le sue possibilità. È una bella filosofia, quella di Fatavarich, che restituisce a tutti i membri del popolo fatato i suoi mezzi di produzione. So che quando stava in Siberia faceva architettura di ghiaccio. Poi è stata per un po’ di tempo al Salar di Atacama, costruendo palazzi e statue di sale. Un giorno, però, si è accorta ch i muri che aveva costruito si stavano crepando, per cui ha deciso che si dedicava al traffico dei maggiolini, dei maggioloni e delle carrozze tirate dai ragni. Ha fatto presto carriera, ed oggi amministra anche il flusso di immigrazione magico, cercando di evitare gli inevitabili problemi culturali che possono sorgere quando un Djin monta la sua lampada di nomade di fianco, che ne so, alla villetta di pan di zucchero di una strega tedesca. Oppure, quando un cinocefalo mongolo ulula alla luna sotto le finestre di uno gnomo svizzero. Son poi problemi, questi, che qualcuno deve pur affrontare! C’è poi una guerriera, tra noi, che per svagarsi dirige telepaticamente una fattoria modello in un piccolo microcosmo parallelo. L’altro giorno aveva il problema delle lumache celesti che le mangiavano le piante carnivore, che lei usa al posto della carne. Al tavolo c’è pure un elfo cisalpino, si vede dalla forma del naso e dal taglio un po’ obliquo degli occhi. È uno degli elfi più pacifici che conosca, va in giro con una vecchia tortuga che, quando spinta al massimo, va ai 23 all’ora, suscitando la rabbia degli automobilisti comuni. Comunque, visto che Fatavarich ne ha parlato, decidiamo di raccogliere dall’orto un po’di bacchette magiche, dei frutti rossi che ammiccano quando li metti in bocca, leggermente lisergici, con cui si fa l’insalata. Quando le bacchette magiche seccano, si estrae una polvere che, immessa nella nebbia, si avvolge ai nostri sogni ad occhi aperti, rendendoli più colorati e caleidoscopici. Domani, allora, io e Medea andremo nell’emisfero sud, alla ricerca di qualcuno che possa aiutarci a rintracciare lo Yeti.

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FATALITÀ (1)

Io e Medea decidiamo di prenderci qualche giorno di riposo in un resort specializzato in yogurt. Il resort è famoso per i suoi favolosi letti terapeutici a chiodini, che hanno la particolarità di essere girati a seconda della stagione, per rendere più efficace la terapia: d’ inverno le teste e d’ estate le punte.

Il resort é sul’ Himalaya, un posto assolutamente mistico ed esoterico a uno sputo da Thimphu. A Thimphu c’è una bellissima fonte della gioventù, all’interno del Palazzo delle Terme. Dopo il bagno ci ritroviamo vent’anni più giovani.

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Il resort, che si chiama “Allo Yeti allegro”, ha sul davanti un piccolo pub accogliente, luci soffuse e rivestimento in legno, così durante le fredde notti invernali dell’ Himalaya si poteva socializzare guardando la fitta neve cadere là fuori. Una svizzera orientale, insomma, con tutti i confort che una fata, una strega o un’ arpia moderna possano desiderare. Comunque, si, insomma, io e Medea decidemmo di farci questa settimana dal nostro vecchio amico.Quando arrivammo, dopo un viaggio piuttosto difficile a dorso di yak, ci dissero che il padrone, lo Yeti dell’insegna, aveva rinunciato all’attività perché si è reso conto di essere in estinzione. Se ne è andato a svernare da qualche parte in Sudamerica e non è più tornato a Thimpu. Ci facciamo comunque un giretto nella zona prima di approfittare di un concerto all’aperto in cui suonano le trombe tibetane. Il cielo si riempie di suoni metallici simili ai gemiti delle balene in calore, il che commuove fino alle lacrime Medea, che non riece a fari una ragione della scomparsa di Caramella, la piccola balenottera azzurra che risalendo i tubi era un giorno arrivata alla sua vasca da bagno. La fidanzata di Medea, però, soffriva di un sacco di allergie e, nella lista di cose che la facevano starnutire, c’era anche il pelo di balenottera azzurra. In una staffetta combinata di due piccoli TIR, la piccola Caramella era stata affidata ai suoi genitori d’adozione, in un laghetto salato nel grande salar di Uyuni, in Bolivia. Un giorno, però, Caramella si era inbissata ed era sparita nel labirinto di sale andino. Era stata avvistata qua e la in mezzo ai fenicotteri della laguna verde, al confine con il Cile.Poi, più nessuna traccia. Ecco, i suoni trombotici, cioè di trombe ipnotiche, dell’Himalaya aveva rievocato la nostalgia di Medea.

Il fatto che gli Yeti fossero in estinzione ci aveva preoccupate, così decidemmo di tornare al Prato dei Pioppi e parlarne con gli altri membri della comunità.

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Lo facemmo durante un pranzo a base di fiori: crema di fiori di zucca, rose arrosto con la cannella e, per finire una deliziosa torta i iris e acacia. L’unico problema era la moltitudine di api che cercava di scroccare le pietanze. Riuscimmo ad arrivare ad un accordo rifornendole di alcool, nel quale depositarono propoli e miele, di modo che, dopo il pasto, ci godemmo anche un delizioso liquore naturale. La Lupa Romana, responsabile per buona parte della nostra scorpacciata, saputo della scomparsa dello Yeti ci suggerì di rivolgerci a un suo qualche parente, per scoprire qualcosa di più sull’ultimo rifugio del nostro amico. Mentre discutevamo in quale direzione svolgere le nostre ricerche, il sole cominciò a calare ed io e Medea decidemmo che il giorno dopo saremmo partite alla ricerca dello Yeti in Sudamerica.

 

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IO E MEDEA ANDIAMO A SIRENE

                                              http://www.foto-divertenti.it/la-sirena-scheletro/ 
Quindi, si, le sirene esistono e proprio l’altro giorno ne parlavo con la mia vicina Medea, mentre lei raccoglieva le uova d’oca da un albero d’oche…
Abbiam poi deciso che prendevamo io il mio maggiolino e lei la sua vespa per volare sulle spiagge della Sirenaica. A Sirene avremmo potuto passare una notte allegra al Nausicaa, e, chi sa, incontrare una qualche sirenetta con cui scambiare quattro chiacchiere… La musica, già in partenza, è la parte più appetitosa della serata, c’è la lira elettrificata sopra il battito di onde contro gli scogli e, soprattutto, c’è la voce suadente, sexy e roca di Melusina, il tutto live e accompagnato da un’ottima scelta di nettari e ambrosie, e l’ambiente è sempre interessante.
Insomma, vespa e maggiolino sellati, arriviamo in questa regione bellissima del nord Africa. La Sirenaica è la regione orientale della Líbia, la cui capitale è Bengasi, che anticamente era conosciuta come Bengodi. Per ragioni di trasformazione fonetica, che non starò qui a spiegare, oggi è conosciuta come Cirenaica e la città più antica è Sirene, oggi Cirene.
La grande fonte di ricchezza della Sirenaica è il turismo, specialmente a Sirene. Gioco e prostituzione sono la ricchezza del posto che il boss Nettonio gestisce e soprattutto i maschi umani, attratti dalle voci seduttrici delle indigene, finiscono per lasciarci il capitale. È una vera e propria Las Vegas africana, stretta tra il mare e le propaggini del Sahara.
Io e Medea arriviamo a Bengasi al tramonto e il colore del cielo ci lascia senza fiato. Tra le malie delle maliarde africane, ci scordiamo sempre delle arti di seduzione della nostra amica Shaba, boss potente che controlla quella zona, che ci sta aspettando e che ha creato l’incanto del primo tramonto color argento che abbiamo mai visto in vita nostra. Ci riceve nel suo palazzo Bengodiano, e per essere chiara sul posto dove entriamo dopo aver lasciato maggiolino e vespa alle cure degli stallieri, immaginatevi una straducola polverosa, non asfaltata, con quattro cani smunti che rigirano i monticelli di pattume.
E qui, Medea non si smentisce, entra in una macelleria dove compra quattro gobbe di cammello, le sminuzza e le da ai cani. Due cose: uno, le gobbe di cammello sono ricche in proteina e sono molto idratanti, quando sono gonfie, praticamente come il cocco verde. Due, Medea non è un tipo materno, ma con le bestie ci sa fare davvero. Una volta è riuscita a piazzare due draghi di Kommodo abbandonati sulle coste di Sumatra a una famiglia d’adozione di gnomi tedeschi. Ha un vero e proprio allevamento di vesponi che servono proprio al trasporto degli animali che devono essere adottati nei punti più distanti del globo. È l’unica persona che conosco che sia riuscita a trasportare pinguini neonati al polo nord e un gruppo di anziani orsi polari nella Terra del Fuoco. La parte dei pinguini l’ho vista anch’io, abbiamo viaggiato insieme e mi ha insegnato a dare il biberon ai pinguini senza ferirgli il becco.
Ma sto divagando. Allora, straducola, cani (ora alimentati da Medea) e uno stretto androne. Dietro, un palazzo che è l’equilibrio perfetto tra l’Alhambra e il Taji Majal.
Il palazzo di Shaba.
Da perdersi. Infatti, io e Medea ci perdiamo, finché Arianna, la figlia di Shaba, non viene a salvarci da quel dedalo di portici, vasche di fiori di loto, fonti della gioventù. Sono anni che non vediamo Shaba, così passiamo la serata attualizzandoci. Lei è appena uscita da una storia pesissima con un giudice, che però avrebbe preferito essere un cantante e ballerino professionista. Quindi, un frustrato, che quando Shaba è rimasta incinta di Arianna lui, semplicemente, con una sentenza storica sull’affidamento della prole ad una delle due madri di una coppia lesbica separata, ha mostrato che sarebbe stato un padre piuttosto complicato, pronto a risolvere le cose sul filo di lama.
Vabbe’, ci piange un po’ su, ma Medea prepara un narghilè ben carico e ci ritroviamo presto beate a fare battutacce sulla propensione di “giudici cantanti ballerini” che pontificano senza mai avere l’ombra di un dubbio, anche quando i loro atti possono essere interpretati solo come delle emerite cazzate..
Ci addormentiamo pian piano tra i cuscini del boudoire, tra i fumi e i profumi della mirra, che mantiene lontane le Aedis Aegypti, zanzare con la testa di tigre e un copricapo faraonico che volano in formazione geroglifica.
Il giorno dopo lasciamo Shaba e Arianna con la promessa di rivederci presto. Il mio maggiolino ha le ali che brillano e rutta soddisfatto dopo aver banchettato, la vespa di Medea mi ronza di lato, mentre ci dirigiamo verso Sirene.
Arriviamo e, chiaro, alloggiamo all’hotel Ulysses, il più antico della città. Ça và sans dire, il proprietario è sempre lo stesso, continua sordo come una campana. Anzi, è peggiorato. Passiamo la giornata sulla spiaggia, a fare le turiste, confuse tra i turisti. I troll abbondano, ma basta saperli trattare. Mi ricordo che quando ero una giovane fata ancora senza colore, cioè prima di diventare nera, una volta in un locale c’erano tre troll. Una di loro aveva letto una pergamena con feticci da quattro soldi, uno dei quali diceva “va’, dove il cuor ti porterà”, e l’altra troll, immediatamente, rispose “ma che cuore e cuore, va’, dove la gnocca ti porterà!”, mentre dall’alto dei suoi due metri e mezzo mi guardava con occhi tristi e libidinosi. Lavorava al mattatoio municipale. Le troll dovrebbero farci pensare a una certa crudeltà della vita.
Alla sera ci prepariamo per uscire. Sirene brilla di insegne luminose, le strade sono affollate di ogni creatura possibile. Al Nausicaa, alcune facce nuove, molte conosciute. Da un tavolo, lepida, Nereide si alza ondeggiante e si dirige verso di noi, chiamandoci con voce acuta. Sediamo al tavolo con lei e le altre: Fat-A-Maranta, la nostra amica rapper (secondo me, la sua più bella interpretazione è stata “Il volo del calabrone” urlata dall’ape appena domata).
Poi ci sono Grazia e Graziella, due delle tre Grazie. La terza ha sempre sofferto di crisi d’identità per il nome che le hanno imposto. Da quando ha cominciato a capire come funziona il mondo, si è resa conto di non essere mai stata voluta. Per cui, già in giovane età, ha scelto di fare la mercenaria nelle guerre africane alla ricerca dell’oblio. Grazia e Graziella, però, sono graziosissime, specialmente quando si scatenano in pista a ballare. Oddio, io e Medea abbiamo un po’ la sensazione che la terza sorella avesse un effetto positivo su una certa sdolcinatezza delle due, con la sua ironia tagliente. Al locale ci sono anche un bel po’ di troll e qualche altra figura interessante, Medea si sporge per prendere un succo di ginepro fermentato, mentre io mi guardo intorno, in attesa che entri la voce di Melusina ad intrecciarsi con il rock divino della lira elettrica scatenata di Nausicaa. So già che io e Medea ci porteremo via il Cd di queste due, da ascoltare per mesi in attesa di un fare un altro viaggio…

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UMA HISTÓRIA DA SABEDORIA DA SIBILA.

Quando a Sibila tinha somente setecentos anos, conduziu Enéias para o Ades, para que ele pudesse falar com o pai Anquise. Por volta dos mil anos de idade, a Sibila reuniu e ordenou todas as folhas de palmeira com seus oráculos, costurou-as em nove rolos (volumes), para que o vento não as levasse, e se apresentou ao rei de Roma, Tarquinio, o Soberbo, oferecendo-lhe esses volumes.

O rei ficou interessado aos livros, mas, quando a Sibila pediu 300 moedas de ouro, se recusou a pagar, considerando o preço excessivo.
Então, a Sibila jogou três dos volumes no fogo. Logo depois, voltou a oferecer s seis volumes que sobraram ao rei: pelo mesmo valor de 300 moedas.
O rei riu e, claro, continuou recusando. Mais três livros encontraram, assim, o caminho das chamas.
A Sibila, a esse ponto, ofereceu mais uma vez os últimos três livros ao rei. Preço: 300 moedas.
Preocupado com a teimosia da velha vidente, o rei reuniu um conselho de sábios, que chegou à conclusão de que o rei errara em deixar a Sibila queimar os livros, pois aqueles volumes continham um conhecimento difícil de se avaliar que, porém, incluía a visão do futuro de Roma fornecendo, assim, a maneira de enfrenta-lo.
O sábios sugeriram, portanto, que o rei comprasse os últimos três livros, pelo preço pedido.
Assim nos conta a história Dionísio de Alicarnasso.
A pergunta que assombra o rei é: “Por que três livros valem o mesmo de nove?”.
Valem o mesmo porque são o mesmo. Um livro é todos os livros, ele é possível graças aos demais. o livro não é submetido ao tempo.
Mais ainda: como a Sibila, pode levar-nos ao além, pode nos por em contato com os mortos…
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NÃO ESQUEÇAM DE VISITAR A SIBILA!!!

Foto da gruta em que se acredita morasse & trabalhasse a Sibila Cumana: em Cuma, perto do Vesúvio. O lugar merece uma visita….

As Sibilas eram videntes, dedicadas ao culto de Apolo. Seus oráculos eram dados, geralmente, em grutas próximas de vulcões. A Sibila Cumana era uma dessas videntes, de temperamento triste, colérico e selvagem. Quando recebia as profecias, entrava em um transe profético, que não chegava a deixa-la alienada. Depois de receber as palavras futuras do Deus Apolo, escrevia suas visões em versos, nas folhas da palmeira que crescia na entrada de sua gruta.

Em seguida, deixava as folhas no chão, para que aqueles que pediram a consulta as lessem.
O vento, porém, virava as folhas, as misturava e levava embora muitas delas. Dessa maneira, as profecias se tornavam quase sempre incompreensíveis, e os pedintes iam embora lançando suas maldições contra a Sibila.
Quando jovem, a Sibila fora desejada por Apolo que, em troca dos favores da moça, ofereceu-lhe esse dom da profecia. A jovem aceitara o dom, além de pedir ao Deus também tantos anos de vida quantos eram os grãos de areia que cabiam em sua mão.
Depois de obter as dádivas, todavia, zelosa de sua pureza a Sibila se negou ao Deus, o qual, enfurecido, se vingou: com efeito, a jovem esquecera de pedir, com os muitos anos de vida, que seu corpo não envelhecesse.
Foi por volta dos 40 anos que ela se apercebeu de seu erro, mas já era tarde de mais.
Dizem que seu corpo encolheu a ponto de se parecer com uma cigarra. Construíram para ela, assim, uma pequena jaula onde ela cantava suas profecias. Alí foi deixada até o dia em que umas crianças a colocaram em um jarro tampado, que só de vez em quando era destampado, para ouvi-la dizer as únicas palavras que, a esse ponto, ela pronunciava: “Quero morrer, quero morrer…”
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BIOGRAFIAS IMPOSSÍVEIS II: IRREVERENTE LIVRE

Foto de casamento das duas Irreverentes.

A senhorita Irreverente Livre reside na Rua do Joelho 12, ao lado da cadeia da cidade famosa por suas três Ts de Tetas, Torres e Tapioca.

Irreverente é a primeira T, a de Tetas, sem dúvidas. Exuberante, revela esse seu elemento enlevando-o através de abismos vertiginosos de decotes marcantes, regatas restritas que não restringem muito. Irreverente, para dizer a verdade, não gosta muito de sua T, pois quando ela entra, antes dela entra sua T. Irreverente, desde criança, espiava pelas janelas da Rua do Joelho 12 suspirando, se perguntando como abrir, aliás, escancarar os portões da cadeia, que ela chamava de Castelo do Marisco, lugar que imaginava feito como as masmorras da magnífica residência de uma bruxa poderosa, e pensava que um dia teria derrotado a bruxa e a substituiria, poderosa e dominadora. Enfim, queria descobrir os Mistérios do Marisco. Tanto trovão trouxe chuva, e também tanto foi a gata até a banha que acabou perdendo uma pata, encontrou, a jovem, livre, o caminho para este conhecimento e, finalmente presa, em seguida a posturas um pouco excessivas (leia-se: tumultos graves no estádio durante os jogos de seu time do coração), conseguiu, finalmente, libertar toda sua irreverência entre as estreitas paredes de uma cela comum. Conta Irreverente que a excitante experiência a encheu de felicidade, pois conseguiu, finalmente, encontrar Figuras Interessantes, ladras e prostitutas, trombadinhas e traficantes, ampliando, assim, o panorama de suas possibilidades. Irreverente nunca teve dúvidas: o mundo de liberdade atrás das grades é, decididamente, muito mais interessante de tudo que, até então, encontrara. Por isso, visto que sua permanência nas cadeia nacional durou somente poucas horas, daquele dia em diante ela se esforça, com grande seriedade & afinco, para reencontrar o caminho daquela que considera sua verdadeira residencia, a cadeia do Marisco, onde um dia poderá afirmar que é Livre, ainda que tenha, para isso, renunciar a ser Irreverente.

Para tanto, muito se empenha: lá, onde as brigas são mais ásperas, lá, no parapeito da curva, a gritar até explodir as veias do pescoço, lá, onde os Paraísos Artificiais se encontram na escuridão – e, às vezes, à luz do sol – eis que Irreverente caminha, tranquila e seráfica, consciente de sua força, da direção a ser dada à sua vida. Dominará o grande castelo do Marisco, ainda que dificuldades e obstáculos pareçam insuperáveis. Enfim, não é facílimo, quando os Inimigos, as Forças da Ordem se opõem, proibindo-a de entrar no lugar mais amado, no lugar onde pode ser si mesma, libertando a força selvagem que guarda dentro: o estádio é a ela proibido, e não tem graça em entrar no Marisco enquanto desobediente pura e simples, aqui precisa de algo grande, algo que demonstre sua potencia, não um malfeito corriqueiro!

Irreverente realizou um monte de coisas belíssimas, em sua vida, é uma Esplendorosa Pessoa, chia de idéias e atividades. Por exemplo, um dia resolveu montar um time. De futebol? Não. De vôlei ? Não. De Basquete? Que nada! De futebol americano, um esporte leve e delicado, time para o qual convidou várias donzelas leves e delicadas, que desejavam correr como ninfas entre os bosques, enfrentando os adversários como se fossem Sátiros Vulgares a serem eliminados. O time não podia que se nomear As Megeras. Infelizmente, elas ganhavam tanto, mas tanto que, no final da primeira rodada os outros times recusaram-se em investir seus patrocínos em esparadrapos e colares de gesso. Assi, as Megeras ganhavam sem jogar, por abandono do adversário. Jogar virou um grande tédio e o time se extinguiu. Ma Irreverente, todavia, decidiu que os vestígios de tudo isso deveriam permanecer como eterna memória, tanto que, ainda hoje, todos os anos, convoca as sobreviventes companheiras de time para uma grande festa. Na verdade, poucas são as supérstites nas cruéis andanças da vida. Parte sucumbiu às múltiplas maternidades, outra aos Poderosos Maridos Impotentes, ou às Namoradas Extremamente Dolorosas, tanto que o número que sobrou é tão pequeno que na festa anual das Megeras vai um monte de gente que não tem nada a ver. Ainda assim, é sempre um momento de encontro mágico, apesar do fato de a lembrança das Megeras ter que ser tomado emprestado pelos hóspedes por algumas horas.

Irreverente é viúva, de um casamento de Amor. Sempre aquele com A maiúscula, mas dessa vez de origem visceral, aquele Amor que chacoalha a alma, as entranhas e a genitália. Casou, contra a vontade do mundo inteiro, mas com o apoio de amigas leais e da família, com Irreverente Lutadora. Sim, eram as duas Irreverentes, homônimas, iguáis e contrarias: Irreverente Livre, loira, extrovertida, de esquerda, Irreverente Lutadora, morena, introvertida e declaradamente de direita. Yin e Yang total, saíram à conquista do mundo, o Marisco, mas o Marisco era fortificado, ainda não amadurecera o tempo, as estrelas não se encontravam corretamente alinhadas, e enquanto esperavam o melhor momento, se dedicavam à construção de outros Paraísos Domésticos: a casa delas se tornou um acolhedor Buraco Negro, onde todos que entravam não encontravam nem a maneira nem, principalmente, uma motivação para sair. Irreverentes e Felizes, confundidas uma na outra em um abraço decididamente resistente, duras e tenras, excessivas, amadas e admiradas, criavam sempre um arrepio, um frisson por onde passavam. Ou, quanto menos, uma certa Perplexidade, mas nunca sua passagem deixava as coisas como estavam. Mas, mas, porém, porém, um dia, Irreverente Lutadora deitou entre os vasos de flores e disse: “Meu amor, está hora de eu deixar o Buraco Negro para sempre, pois a luz é um fenômeno que merece um estudo aprofundado. Sei que vou deixar um Buraco Profundo, mas o que deve acontecer, acontece, e nossos trilhos cruzados devem encontrar um cruzamento diverso”, fechou os olhos e um bando de faisões no jardim lhe levou embora o respiro. Grande foi a dor de Irreverente Livre, uma tristeza Território infinito sem fronteiras tomou conta dela, perdera metade da Irreverência, sua doce metade, mas como se trata de uma mulher de fibra, agarrou um regador e começou a recolher as lagrimas para regar gerações e gerações de orquídias exóticas e brilhantes. Eis, agora que vocês encontraram toda essa Irreverência, saibam que sua existência é de Fundamental Importância para quem é do bem e, talvez, também para quem é do mal.


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BIOGRAFIAS IMPOSSÍVEIS: CÁLIDA NEBULOSA.

A esquerda: a foto do passaporte de Cálida Nebulosa.

A senhorita Cálida Nebulosa, de origem rural, mede pouco mais de um metro & tem cara de ostra. O pai, Nérvulo Nebulosa, se ocupa de vacas, em particular de seu trato gastro-intestinal, que conhece profundamente ao toque. Possui a extraordinária capacidade de distinguir as particularidades que envolvem – ou revolvem – essa última parte do aparelho digestivo dos simpáticos animais quadrúpedes ruminantes, & é um dos mais conhecidos experts no campo. Infelizmente, os vapores mefíticos que, com demasiada freqüência o envolveram desde jovem nessa brilhante atividade minaram definitivamente sua saúde. A mãe, Sonhante Nebulosa, quando senhorita tocava piano mas, fascinada pelo conhecimento profundo dos labirintos bovinos do então jovem Nérvulo, abandonou a possível carreira de brilhante concertista em festas rurais & bucólicas, com a finalidade de se tornar sua devota esposa &, principalmente, dedicar-se às beatas tarefas da devoção religiosa na igreja local, uma imitação praticamente perfeita da basílica de Santa Cleonilde das Marés, em Finis Terrae, Portugal, ainda que em escala reduzida. Dessa união bendita, principalmente pelo pároco da aldeia de Cambatatã, localizada nada mais nada menos do que no interior do interior do Brasil, a cavalo do trópico de Capricórnio, nasceram dois filhos. O primeiro, Crédulo Nebulosa, subiu na carreira em uma multinacional de produtos de jogo de azar para malandros. A empresa produz baralhos com sete ases, dados côncavos e convexos com sete caras, tarôs trucados e, principalmente, roulettes com várias inclinações, entre as quais a mais vendida é aquela de inclinação sado-masoquista & fetichista. Crédulo casou-se felizmente com uma doce donzela da aldeia feliz de Cambatatã, generosa & cheia de piedade, tão cheia de piedade que se dava por piedade a todos que mostrassem tendências à solidão & melancolia. Crédulo, movido por tamanha devoção para com a humanidade, sentiu um frêmito na frente, de aprovação, & pediu sua mão, que ela, certeiramente, aplicou no lugar certo, no momento certo. E viveram felizes & contentes.

A segunda filha do casal Nérvulo e Sonhante foi, com efeito, a ostra anã Cálida.

Desde a mais tenra infância, Cálida sonhava com outros lugares e outros horizontes, talvez mais elevados, já que ela ia à altura de pé mas, de qualquer maneira, o fato é que, olhando para o infindável horizonte de campos de túberos em volta de Cambatatã, repetia para si mesma que um dia teria conhecido realidades mais rizomáticas do que aquela. A primeira vez que expressou esse desejo, todavia, levou dois redondos tapas na cara, simultâneos, um de cada face, tapas dedos pelo casal Nebulosa, e que configuraram, de forma definitiva, suas feições de ostra. Daquele dia em diante, alem de querer ir embora, Cálida tomou consciência da beleza das mulheres & de sua própria configuração de fruto de mar viscoso, & começou a acariciar a idéia de transformar todos os rostos em ostras mais ostras do que o dela. A situação era tão trágica, mas tão trágica, que a senhora Sonhante, cada vez mais enrolada nas sábias coisas da religião, percebeu os traços do demônio no rosto da filha e pediu a intervenção do bom pároco da pequena paróquia tropical. O pároco sugeriu que levassem a ostra anã para uma benção especial, em que ele usaria o suco mais puro do produto dos campos de Cambatatã. Em resumo, tentaram caçar o diabo a golpes de purê. Ao que parece, a coisa não funcionou, e Cálida cresceu – pouco, para dizer a verdade – de alma cada vez mais apodrecida.

Finalmente, conseguiu fugir ao seu cruel destino de pequena filha de Cambatatã, quando já tinha se tornado uma ostra adulta, mas ainda assim anã, e foi trabalhar na cidade grande, em Capital City e ainda mais, ainda por cima, a cavalo do mesmo trópico tropical. Em Capital City, a jovem ostra encontrou seu destino, ou melhor, sua Nêmesis Profunda: um emprego em uma revista de plástica e beleza. O fato é que, vejam bem, nenhuma mulher impressa é o que aparenta ser. Aliás, é sempre produto de infinitos retoques: uma olheira aqui, um rolinho de gordura acolá, uma falta de elasticidade acima, um excesso de adiposidade abaixo… Enfim, nenhum cirurgião plástico realiza na prática, o que Cálida Nebulosa alcança com seus instrumentos digitais, com os quais retira as imperfeições, para satisfazer, assim, os sonhos de senhoras calipígias, exuberantes e não mais viçosas, graças a seu bisturi informático. A Ostra Anã, que havia muito acalentava o desejo de destruir todo e qualquer vestígio de beleza feminina, encontrou-se trabalhando na invenção de belezas refeitas & falsificadas que nem milagres… E se essa não é Nêmesis, então me digam vocês o que é! Cálida realiza centenas & centenas dessas operações milagrosas todo mês, produz milagres digitais quotidianos, deixando as leitoras sonharem, leitoras normalmente imperfeitas, de poder um dia se tornar algo que nenhum cirurgião jamais se permite prometer.

Apesar dessa piada do destino, todavia, Cálida não podia se conformar com seu estado de Vênus Impossível, e sentia queimar dentro o desejo de desfigurar profundamente algo, ou melhor, alguém mais bonito do que ela. Assim, começou a procurar pelo amor. Aliás, pelo Amor com a famosa A maiúscula, já que, alimentada por anos de papas de telenovelas, que a mãe Sonhante assistia com olhos sonhadores e nostálgicos, obviamente não conseguia pensar em uma alternativa plausível ao que via na TV, e queria realiza-lo nesse mundo de pessoas em carne e ossos.

Em breve, o fato é que Cálida, pequena, de cara torta e com o dom digital de transformar mulheres normais em belezas virtualmente impossíveis, queria encontrar uma mulher bonita e torná-la uma montruosidade real. Isso, afinal das contas, nada mais é do que o papel de vilã em uma qualquer novela de respeito: odiar toda forma de beleza, certo requinte de pensamento e qualquer resquício de inteligência. Tornar-se Pura Inveja, aquela que a mãe Sonhante sempre avisou ser um Pecado Capital. Mas, fazer o que? Cálida Nebulosa era inevitavelmente atraída pelo que mais odiava: as mulheres.

Bom, está na hora de deixarmos essa ostra sem pérula rara às suas piedosas obras de restauração corporal fictícias. Vamos deixa-la à sua ráiva camuflada de Vítima das Circumstâncias, já que não se trata de uma Personalidade Apaixonante, mas sim, de um Mero Acidente contra o qual gente bem mais interessante teve a desavença de esbarrar. Ainda que Cálida não seja um iceberg, e quem nela esbarrou não tenha afundado feito um Titanic ela teve, mesmo assim, a capacidade de provocar alguns galos nas cabeças.

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